3rd Nov, 2015

My name is Sergio Andreatta

My name is Sergio Andreatta

Sono nato a Latina il 3.10.1947 da Maria Fanny de’ Coppi da Mareno di Piave e da Giulio Camillo Andreatta da Paderno d’Asolo (del Grappa dal 1919), “pionieri della Bonifica” al Pod. 769 di Borgo Bainsizza, lui imprenditore, musicista e primo consigliere comunale dei Borghi, lei semplice casalinga. Minore di tre fratelli (Bertilla, Madre Camilla da missionaria comboniana, e Ambrogio), a nove anni il giorno del Signore sarebbe venuto come un ladro nella notte (San Paolo, I Tessalonicesi, 5,2), esattamente alle quattro e mezzo del mattino con il terribile annuncio che papà era appena morto in un incidente motociclistico. Dopo le scuole elementari al Borgo (durante le quali avevo pubblicato la mia prima poesia su “Il Pennino”, il giornale del I Circolo didattico di Latina diretto da Vincenzo Tasciotti,) la maestra Scarpa mi prepara all’esame di ammissione alle scuole medie. Ma il capoluogo è lontano 12 km., lo scuolabus non c’è ed io non posso andarci in bicicletta specie d’inverno così, su consiglio del viceparroco don Carlo Cesaretti, sarei stato indirizzato al Collegio orionino di Grotte di Castro, il suo paese. Seguirà il ginnasio al Santa Maria di Vicolo dei Massimi (Monte Mario). La mia crescita è senza troppe distrazioni. Il professore di francese è don Andrea Gemma, poi vescovo d’Isernia, e come compagno di banco mi trovo Giovanni d’Ercole, dal 2014 vescovo di Ascoli Piceno. La sera dell’11 ottobre 1962 insieme a lui e agli altri della classe mi ritrovo in Piazza S. Pietro sotto la finestra più illuminata del Palazzo Apostolico. Al termine della giornata di apertura del Concilio Vaticano II, da lì si sarebbe affacciato Giovanni XXIII per le sue pennellate sulla luna, la pace, Roma e i bambini: “Tornando a casa, troverete i bambini. Date loro una carezza e dite: “Questa è la carezza del Papa”. Un effetto improvviso sulla mia anima, uno tsunami emotivo e un’intuizione che viene a schiaffeggiarmi: non occorre che diventi prete per occuparmi di ragazzi, la mia vocazione sarebbe potuta essere quella di padre e di educatore. Giorgio Alessandrini, Ugo Barbano, Andrea Damilano, Ajmone Finestra, Alberto Manzetti…, sono questi alcuni dei professori con cui avrei completato i miei studi superiori a Latina fino alla maturità. Il Ministro della Pubblica Istruzione mi aveva già conferito due borse di studio quando il preside-sindaco Iginio Salvezza, come miglior studente dell’Istituto A.Manzoni, mi manda nel 1966 in soggiorno-premio all’Hotel International de jeunesse di Parigi. Sono un adolescente senza troppi grilli per la testa, dedico le mie ore allo studio e al lavoro, quando posso gioco al calcio o vado in bicicletta o vado a suonare l’armonium in chiesa. Non so se sia tempra morale o meno ma so districarmi dalle amicizie frivole e fuorvianti che mi si stringono intorno. Il pranzo è sempre veloce perché già alle 15 devo approdare al Consorzio Agrario per collaborare con mio fratello nella conduzione dell’agenzia. Sulla canna della bici c’è la cartella dei compiti che avrei aperto tra una commissione e l’altra. Con un po’ della filosofia che la vita mi stava insegnando mi guardo intorno e penso di esser stato comunque fortunato perché tutti i miei compagni delle elementari non hanno potuto studiare come me. A luglio del ’67 un articolo de Il Messaggero segnala ai suoi lettori la mia brillante abilitazione magistrale, nella foto indosso una t-shirt arancione e gli occhiali da sole. Beh, sì, ancora oggi a guardarmi penso che dovevo essere proprio quel bel figo per cui le donzelle fremevano. Ma gli esami non finivano mai. Ce n’era ancora uno che si frapponeva al mio ingresso a La Sapienza. Il pontefice massimo, il presidente di commissione Luigi Volpicelli non riesce, però, ad intimorirmi con la sua pompa magna. Ecco che lo supero ed entro alla Facoltà di Magistero. Non mi resterà che seguire i miei interessi e studiare ora. Afferro con ardimento da incosciente il toro per le corna e mi presento così davanti al prof. Palladini per il I, ostico e temutissimo, esame di latino. Il gioco dell’oca era risaputo, dopo il lancio dei dadi in quella casella si doveva sostare normalmente per tre sessioni. Al contrario io sarei stato portato ad esempio di perfetto traduttore di versione fin dalla prima botta… Rara avis o solo botta di c…? Mah, non lo saprei neanche oggi! E già prima per un giorno avevo interrotto la vendemmia al Podere 769 per una selezione all’E.N.A.O.L.I. “Alea jacta est”, per me era in gioco l’ammissione a uno stage residenziale al Centro Pedagogico “A.S. Giaccone” di Tomba di Nerone. Fosse andata bene, a fine training, mi avrebbero assunto come istitutore. All’Ente Nazionale, notoriamente un feudo democristiano, erano affluiti più di 400 candidati da tutt’Italia, molti raccomandati da onorevoli e vescovi. Un tema sull’influenza e il condizionamento dell’ambiente sociale nei processi di formazione della personalità, era stata la prova da superare per aprirsi le porte del Corso residenziale. Va, va, la prova scritta va benissimo e mi trovo così a frequentare lo stage gomito a gomito con la cultura di un Luciano Scaffa (condirettore responsabile della rivista “Realtà educativa” e poi direttore della TV dei Ragazzi nell’era Bernabei), di un Claudio Busnelli (Univ.Perugia), del noto Mario Maffucci (dirigente RAI, poi anche direttore del Festival di Sanremo), di Maria Luisa Falorni (Univ. Pisa), di Enzo De Toma e di altri. Docenti appassionati, buoni motivatori per una professione ancora solo all’orizzonte. Faccio nuove amicizie, un corsista reatino mi colpisce, è Renato Leti dotato di una pura vena poetica. Poi nel Centro Medico-Psico-pedagogico di Mercogliano (AV) avrei completato il tirocinio previsto per la seconda parte della formazione e sarei stato assunto dall’Ente presso lo stesso C.M.P.P. (provv. n.198 del 5.4.1968). Un contratto di lavoro di 48-52 ore settimanali è un piatto difficile da digerire ma con volontà, memore di quella adamantina dell’Alfieri, non mollo il piano degli studi universitari. Pochi mesi e, su un altro fronte, mi viene data l’occasione di partecipare al concorso magistrale. 2500 concorrenti, una marea montante per pochi posti. Il giorno della prova scritta in un’aula del Vittorio Veneto mi domando:“Quante sono le mie possibilità?” Ci sono trenta candidati in ogni aula e una vocina di sfida che sale dal mio fondo peggiore: “Saprai prevalere su ognuno di loro?” Mors tua, vita mea e, comunque, meno di una probabilità su trenta! Ciak e la difficile scommessa, ormai giocata, sarebbe stata vinta. Agli orali per la letteratura dell’infanzia non avrei portato davanti alla commissione esaminatrice nessuno dei tanti classici in voga ma una mia visione sulla potenzialità educativa dei fumetti. Insomma volevo essere, più che bizzarro, originale ad ogni costo. Sarei stato nominato nei ruoli degli insegnanti elementari del Provveditorato agli Studi di Latina dall’1.10.1969. Presso la sede A.I.M.C. intraprendo, senza averne più la necessità ormai, e concludo il Corso biennale di specializzazione in Fisiopatologia. Poi al secondo anno di straordinario, in vista della sede definitiva, una giovane mamma di Priverno (O.V.) mi avrebbe supplicato perché le cedessi il mio posto in graduatoria. Piagnucolava per avere figli piccoli e “Lei, maestro Andreatta, interviene allora il provveditore Costa, è giovane e magari ancora manco fidanzato!” Penso che non siano affari suoi, questi, in realtà la sua impensabile richiesta, formulata nel chiuso del suo ufficio, aveva suscitato in me pensieri più volgari. Ma va bene, sarei andato a Ponza Forna Chiesa al posto suo né, avevo patteggiato con me stesso, avrei dovuto mai pentirmi del beau geste. Un anno è sempre destinato a passare in fretta e puoi studiare tanto, specie d’inverno quando sull’isola soffia un forte vento, fino a sostenere brillantemente nove esami all’Università. Il biennio di straordinario, o di prova, è superato e mi trovo ordinario ad Aprilia, in una società nuova, composita ma per lo più operaia, effervescente. Ma ho un nodo ancora irrisolto, è la leva militare che non posso rinviare sine die. Mi presento così per il mio dovere alla Scuola di Fanteria di Cesano di Roma, III /17° Granatieri di Sardegna, Batt.ne Acqui. E sono A.C.S. nella Compagnia “mortaisti da 120”. I cinque mesi di Corso finiscono, anche quelli e per il mio profilo vengo cooptato presso l’Ufficio Studi e Programmazione con incarichi riservati. Quando rientro nel mondo della scuola sono eletto delegato provinciale dell’A.I.M.C. e partecipo ad alcuni convegni nazionali di studio (Badia Prataglia, Roma,…). E’ la fase in cui m’impregno facilmente di tutti i fermenti nuovi che circolano nell’ambiente magistrale, che mi faccio suggestionare dalle piste della ricerca-azione spendendomi nel confronto con quelli del Movimento di Cooperazione educativa. Provo una forte auto-percezione della funzione docente e vorrei, così, interpretarla sperimentando sulla scia delle ultime soluzioni metodologiche. Nel mio operato qualcuno indovina, soprattutto, una buona dose di amore, ricambiato dai ragazzi. E poi nessuno potrebbe impormi di rinunciare un solo giorno alla mia creatività e alla mia straniante vena ludica. E chissà se non era proprio quello il segreto della buona impostazione. Una mattina di 30 anni dopo un funzionario della DIGOS romana, M.B., me lo sarei ritrovato davanti alla porta aperta del mio ufficio al IV Circolo didattico di Latina. “Sarà, mica, venuto fin qua per arrestarmi?”, penso. La vita di un dirigente può essere complessa e piena di sorprese, anche se stai sempre ben attento a quello che fai. No, non era venuto per arrestarmi ma a confessarsi:“Aaah, non ci fosse stato lei, maestro Andreatta, cosa sarei diventato io? Il peggiore delinquente di Aprilia? Era tanto che volevo venire a ringraziarla!” In realtà lui e alcuni della banda di quella famigerata V di Via Monte Grappa sarebbero probabilmente saltati in aria per la deflagrazione dell’arsenale che avevano da poco scovato in una grotticella dalle parti di Carano. Speravano di ricavarci anche dei soldini spolettando quelle bombe… Ma alla fine, il loro segreto, avevano saputo confidarlo al giovane maestro che di quelle cose, considerato il fresco servizio militare, se ne doveva pure intendere un po’. E così gli artificieri del m.llo Scrofani, subito piombati da Roma, avevano potuto disinnescare i 16 residuati bellici tedeschi… (Continua)

sergio-andreatta-una-storia-un-racconto

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Sergio Andreatta e Renato Leti. Enaoli, Tomba di Nerone,1967.

Sergio Andreatta e Renato Leti. Enaoli, Tomba di Nerone,1967.


Sergio Andreatta, maestro a Borgo Bainsizza

Sergio Andreatta, maestro a Borgo Bainsizza

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