18th Ott, 2012

Decodificazione di un’icona (Giorgia Eloisa Andreatta, Vita di S.Egidio)

Note critiche sulla  “Vita di S. Egidio” di Giorgia Eloisa Andreatta.

di  Sergio Andreatta  ( pdf__p=8351   )

Nel Ciclo iconografico dell’artista pontina penetrano istanze popolari e devozionali persistenti nella tradizione religiosa e altre più moderne e innovative sia sugli aspetti contenutistici che su quelli formali. E grazie al volumetto  “L’Eterno rivelato” si realizza anche un sorprendente cambio di prospettiva: i ruoli dell’osservatore e dell’oggetto osservato si invertono…

 

Nelle sue scelte formali  (non esenti una certa teatralità e un’intesa emotività delle scene malgrado il filtro della visone trasfigurata) e di contenuto (l’agiografia dell’eremita-cenobita S.Egidio patrono del Romitorio di Frosolone cui l’opera è stata destinata), in aderenza alla sensibilità religiosa del committente eremita e agiologo Padre Luciano Proietti, l’opera di Giorgia Eloisa Andreatta rappresenta da un lato un esempio di funzionalismo artistico religioso, dall’altro un punto di rottura con la preponderante stilistica dell’iconografia religiosa attuale.

Nel primo caso c’è una ricerca di scopo, anche una conclamata idea di catechesi attraverso una pittura facilmente riconoscibile, quasi didattica in exultet, e un’idea cristiana di salvezza trasposta nel dipinto ma pure un itinerario delle suggestioni in cui si addentra l’autrice pontina nella sua difficile impresa di conciliare arte e spiritualità, fantasia e realtà. Sembra che lo scopo di questo dipinto sia, quindi, preminentemente quello di parlare all’anima e agli occhi, ma non sono respinti i sentimenti e le emozioni né, nel secondo caso, le tecniche di una personale ricerca-azione pittorica.

Ma è, comunque, il pensiero della ricerca spirituale a conferire, alla fine, verità alle figure presenti e cifra artistica alle tavole. Le premesse trovano ispirazione nella vita di Egidio, nella relazione tra la sua vita esemplare e un’idea di salvezza proposta a tutti ma le scene sono pensate e “scritte” con il forte desiderio di un’esperienza meditativa da condividere. Al di là di ciò che si guarda c’è una ricerca di scopo visibile solo agli osservatori più attenti, ai lettori di un linguaggio eminentemente simbolico, simboli di molti dei quali non si è consapevoli. Davanti ad ogni opera, e particolarmente davanti a questa, serve autoriflessione. La ricerca dell’artista si è mossa e si è sviluppata nella tensione di valori etici ed estetici (nello stesso tempo diventando articolazione di una teoria) col risultato di un prodotto “significante” piuttosto che solo a gioco di un ruolo di illustrazione. In questo ciclo iconografico di Giorgia Eloisa Andreatta penetrano istanze popolari e devozionali persistenti nella tradizione religiosa e altre più moderne e innovative sia sugli aspetti contenutistici che su quelli formali. Un’opera che si presta ad una quantità di significati tanto che per cogliere meglio quelli più intrinseci l’autrice ha corredato la pittura di un libricino (Giorgia Eloisa Andreatta, L’Eterno rivelato, Fede e Arte, Quaderni di Sant’Egidio, 2).

Grazie a questo volumetto  si realizza un sorprendente cambio di prospettiva: i ruoli dell’osservatore e dell’oggetto osservato si invertono. Con il suo sguardo, l’opera della pittrice annulla il nostro sapere troppo superficiale, sono le figure che guardano ora fisso verso di noi quasi a dire: “Associatevi e condividete con noi il cammino della speranza “…  Le due tavole figurative, nel loro contenuto significante, mostrano grande empatia verso Egidio lungo tutto l’arco retrospettivo della sua vita e, di conseguenza, la tesi sembrerebbe schierarsi contro la società sua contemporanea (nell’aspirazione colta dall’artista di una contrapposizione del santo protagonista al mondo coevo) e l’attuale, facendo propria, come unica causa, quella dell’ascetismo. Quasi arte dell’introversione e poi dell’estroversione di un Egidio eremita che diventa cenobita, di un Egidio terreno che diventa alla fine celeste. In realtà la via pulchritudinis è una via accidentata e tormentata, una vita di luci e ombre come normalmente è quella di tutti salvo la singolare capacità di elevazione interiore del vir sanctus e anzi questi elementi alternativi e di contrasto, le tentazioni sono proprio loro a tenere assieme l’intero percorso verso la perfezione ascetica. Come il dubbio della disfunzionalità dell’arte, secondo una teoria critica, può farla sopravvivere anche in un progetto che potrebbe sembrare di ossequio. A questo piccolo, secolare eremo di montagna sul Colle dell’Orso non si arriva quasi mai per caso. Qui pervengono gli inquieti più che i turisti, persone desiderose di condividere il loro peso dell’anima, di passarlo in transfert all’asceta, gruppi di preghiera per gli esercizi spirituali. Siamo sui sentieri più antichi della transumanza pugliese e tutti quelli che pervengono su queste pendici dell’Appennino molisano hanno una loro sofferta storia personale da raccontare all’Incoronata, a S. Egidio, ora potendo interiormente interagire anche con l’icona nuova che, prima della sua collocazione nella chiesetta, è stata benedetta, nel corso di un’intensa cerimonia notturna nel Monastero di S. Chiara di Latina da Padre Jihad Youssef, maronita della comunità monastica di Deir Mar Musa in Siria, fondata da Padre Paolo Dall’Oglio s. j., dove si sperimenta l’accoglienza e il dialogo interreligioso e tra le culture.

La collocazione dell’opera ad altezza d’uomo sulle due pareti dell’Eremo sannita favorisce la lettura sacra e la vicinanza, ne enfatizza l’impatto sull’osservatore e, soprattutto, sul fedele che influenzato le rivolge la sua devozione di credente. Se l’eremita si è potuto interessare esplicitamente forse più ad un ragionamento funzionalistico, all’artista, che pur non sembra ignorare se una certa scena possieda una indiretta potenzialità di condizionamento psicologico alla “funzione religiosa”, doveva interessare principalmente la prospettiva artistica del fenomeno. Al primo impatto l’attenzione dell’osservatore è dapprima catturata dal centro della tela, per poi seguire nelle scene il flusso dei personaggi. In una lettura logica, secondo le diacronie dell’esistenza terrena del monaco. Un ritmo lineare ci conduce dall’angolo sinistro del primo quadro al suo angolo destro, passando per il fulcro che è rappresentato dal centro. Le due tavole sono tra loro complementari. Così non si può vedere la seconda senza essere passati per la prima. I colori sono fisicamente ben separati l’uno dall’altro. La tavolozza è composta da tonalità intense, fortemente espressive, per la maggior parte sui colori primari del blu, rosso, giallo-oro dello sfondo ma anche sui risultanti delle mescolanze additive e sul bianco di cui si vestono Gesù e gli angeli. Il progetto artistico ha previsto un lavoro globale sull’intera composizione, una necessaria modularità ma nelle varie fasi dell’esecuzione ha finito sicuramente col prevalere la pittura delle figure una alla volta, per disegnarla, dipingerla e, soltanto dopo averla ultimata, passare alla successiva. La concentrazione sui singoli particolari, sugli elementi e sui simboli non sempre evidenti a prima vista ha conferito al lavoro, una volta finito, un senso di complessa composizione figurativa ma anche una teatralità e una fisicità che non viene sottratta neppure dalla forte pulsione metafisica e dallo sguardo ascetico che pure pervade tutta l’opera. Nelle due tavole sacre l’immaginazione dell’artista ha fatto così prevalere il teatro interiore su quello esteriore.  © – Sergio Andreatta, Riproduzione Riservata.

Link correlati (Eremo, Padre Luciano, Elogio vita solitaria, Ciclo iconografico, Gruppo Spes):

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https://www.andreatta.it/?p=1772

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