18th Nov, 2007

Sergio Andreatta, I giovani amano la violenza?

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Due Parole (1) 

I GIOVANI AMANO

LA VIOLENZA?

  

Nuova occasione, dopo i recenti fatti di cronaca ripresi dai tg di tutto il mondo, per farci venire in mente alcune domande… I giovani capiscono, c’è da chiedersi, l’uso della violenza come “grammatica per forzare i discorsi”? Sì e a volte la usano anche consapevolmente per esprimersi senza tener conto delle conseguenze. Chi sono, forse giovani alla deriva, che non si sentono socialmente apprezzati e che perciò tentano di farsi apprezzare a loro modo? Non solo loro… Per una reazione quasi meccanica alla disattenzione dei genitori, i bambini trascurati fanno i capricci per mettersi in mostra, mettersi al centro e attirare così l’attenzione su di loro. Una reazione simmetrica che si scatena anche da adolescenti, ma con più virulenza. Ragazzi contro. Fragilità, malesseri, disagi e poi, ecco, la reazione. Quasi una risposta, ma nella cultura dell’eccesso, per dimostrare a tutti di esserci. Colpa di chi? Della società e della famiglia in crisi che hanno rinunciato ad educare quando era il tempo? Sì, purtroppo! Senza voler generalizzare, in alcuni casi sembra smarrito ogni valore di riferimento e di moderazione. Non dicono più nulla, così, la famiglia, la scuola, le ideologie della religione, del partito e dello sport come faticosa pratica per l’affermazione sana di sè… I giovani, anche quelli buoni, quelli che non si… fanno con alcool e droghe, finiscono per riconoscersi sempre meno nella famiglia e sempre più nel gruppo di pari e nelle sue dinamiche, si rifuggiano nel branco e nelle sue ragioni, pensano e condividono con i compagni un progetto di vita più immanente, concreto e diffusamente più relativista. Non tutti naturalmente, ci sono per fortuna virtuose eccezioni, ma certamente molti di quelli che, non proiettandosi in progetti di lunga gittata, “esistono” alla giornata, vivono così tanto per vivere perché non se ne può far a meno, abbarbicati al crudo e fragile esistenzialismo dell’ “hic et nunc”, come sia. Ragazzi a volte frustrati dalle esperienze domestiche, precocemente passivizzati dalle batoste della vita, che hanno sofferto su di sè in un certo momento tutta la trascuratezza del mondo. Ragazzi fragili. Ragazzi che non amano il potere dovunque s’annidi, ma che sentono comunque premere dentro di sè una forte compulsione che deve erompenre ed emergere in qualche modo. E’ una questione dinamica ma anche di recupero, sia pure in modo distorto qualche volta, della propria autostima. Ed ecco il gioco subìto dalla persuasione, più o meno occulta, di qualcosa e qualcuno, un qualunque grande fratello che affascina, una ribalta che suggestiona. Il successo innarivabile per alcuni deve arrivare ad ogni costo, perchè piace, gratifica, rimarca. Ragazzi che non hanno grandi possibilità di scalate per merito (ma ce n’è, poi, in questo Paese?), o di arrivare a traguardi invidiabili ma neanche a quella… raccomandazione-chiave che serve ad aprire oneste strade professionali. Ragazzi con la gelosia coltivata dentro, in preda ad una rabbia profonda, talvolta all’odio. Ragazzi in cerca di un protagonismo antagonista, alla fine pronti a tutto, alla sopraffazione sull’altro, sul debole, anche alla violenza di genere sulle donne,  già instradati alla pratica dell’auto- o dell’eterodistruzione.  © Sergio Andreatta  

(Ripreso dal quotidiano La Provincia del 26.11.2007, pag.22).

 

 

 

 

Commenti

I giovani, come risorsa e non solo come disperazione. Nelle famiglie e nelle scuole impegniamoci di più a costruire la cultura della legalità, a renderli consapevoli che non può esserci mai libertà senza responsabilità. E poi speriamo con fiducia nella loro crescita. A Voi presidi chiedo di essere “presidi delle garanzie democratiche”, di contribuire a spezzare i pregiudizi, se ce ne sono. Anche se diceva Albert Einstein “è più facile spezzare un atomo che un pregiudizio” culturale. Ma coraggio!

A volte non è violenza ma solo un gioco.

Chi si trova in un vicolo cieco cerca sempre di fuggire.

Il ministro avrà avuto una vita facile nella sua quieta Viterbo.

Ho vissuto anch’io gli anni più importanti della mia formazione nel viterbese ma questo… non c’entra. La questione esula dal luogo per approdare in una categoria di spazio e di luogo culturale ben più ampia, quella del “pianeta giovani” e delle sue manifestazioni fenotipiche. Il Ministro scrive sui pregiudizi verso gli “stranieri”, sull’altro considerato “mio inferno” come ebbe già a dire J.P.Sartre e sulla necessità dell’integrazione interculturale. E nel superamento delle separazioni le nostre istituzioni, e ancor prima le famiglie, dovrebbero sentirsi tutte impegnate con la promozione di un sentimento di accoglienza e solidarietà umanitaria. Altro che accentuazione delle differenze!

L’altra mattina ho atteso un bel po’ davanti l’ingresso della scuola dell’infanzia, – ribadisco scuola dell’infanzia – di Via Aurunci per attendere il genitore-proprietario di un SUV (Sport Utility Vehicle) bellamente parcheggiato sulle strisce pedonali. Ho cercato di ragionare con il signore (sigh!) sulla inopportunità di occupare con la macchina il transito dei pedoni. Mi ha risposto a malo modo sostenendo che davanti scuola non c’era parcheggio e lui aveva il diritto di sostare proprio sulle strisce. Il soggetto è papà di un bimbo di 4 anni. Cosa vuoi che gli insegni nel corso degli anni a venire? Presunzione, arroganza, prevaricazione = violenza.
Nino Leotta
dirigente scolastico in Latina

Il fascino, la suggestiva vitalità, l’energia perversa che emana ogni sregolatezza comincia a condizionare già da bambini, proiettando l’idea di un successo, seppur effimero, sotto l’esempio di genitori come quello descritto. Ma non alziamo le mani in segno di resa, sappiamo impegnare tutti i nostri docenti nella difficile scommessa, penetriamo nel seno delle famiglie con le nostre puntuali comunicazioni, con le nostre proposte. Costringiamoli a leggerci, a sottoscrivere un patto educativo, convochiamoli in direzione quando c’è bisogno. Mai arrendersi alla maleducazione e all’arroganza, mai!

Questa mattina (1 dic.) alle poste di Via dei Lucani. La fila è lunga ma neanche tanto considerato che nell’ufficio di Via E.Toti, dove già mi sono recato, avrei dovuto attendere fino al n… 243. Mi metto in coda, avanzo lumachescamente in una fila di persone abbastanza pazienti, ora sono quasi in capo. Ma a un omone, entrato direttamente dalla porta anteriore, non gli va giù di attendere come tutti, si inserisce così abusivamente da sinistra senza forzare più di tanto ma neanche senza desistere alle occhiatacce degli altri e passa un bollettino e poi due biglietti di 50 €. a quegli, un suo evidente conoscente, che mi precede. “Passi”, mi dico tra me e me senza batter ciglio, “Il tempo per due bollettini non è molto più lungo di quello per uno!”. Ora sono in capo, al prossimo toccherà a me. Macchè! Un men che cinquantenne tutto azzimato, capelli biondi lunghi tinti e tirati, si fa avanti con assoluta nonchalance e va ad occupare lo sportello che mi sarebbe dovuto toccare in quel preciso momento. “Chiederà una breve informazione” mi dico. La conversazione, al contrario, diventa fitta e prolungata e,… voilà, ora stanno per comparire anche alcuni bollettini. Avanzo, così, indispettito a reclamare il mio buon diritto. “Bollettini? Sì? Allora, in fila come tutti. Grazie!”. “Ma come si permette, lei non sa chi sono io!” ripete due volte. La postale, forse sua amica, già in difficoltà si fa piccola piccola e si guarda bene dall’intervenire. “Non mi interessa, dico, chi lei sia né a lei deve interessare chi io sia!” “Non alzi le dita, ehhh!”, mi risponde (Cosa avrà voluto dire?) “Non alzo le dita e meno che mai le mani, me ne guardo bene. Non le alzi lei! E non alzi neanche la voce, si deve mettere però in coda perchè qui…, vede?, siamo tutti inglesi!” Applauso. L’arrogante cede di schianto e se ne va… Fine di una scenetta di ordinaria maleducazione pontina che fa il paio con quella raccontata prima da Nino Leotta.

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